Incenso e mirra: i doni dei Re Magi

Buona Epifania a tutti! L’articolo di oggi parlerà dei doni portati dai re Magi, sacerdoti zoroastriani che seguendo la cometa raggiunsero il Bambin Gesù. Come sappiamo essi portarono tre doni i quali erano i più preziosi del tempo ed erano dotati di una forte simbologia. Oro per la regalità, Incenso per la divinità e mirra per la sofferenza. (Matteo 2:11)
Di questi due sono di origine vegetale.

L’incenso donato è in particolare il franchincenso detto anche Olibanum. La parola Franchincenso deriva dall’antico francese “franc encens” che significa incenso puro o letteralmente “vera luce”. La parola araba per il franchincenso è luban, e deriva da una radice semitica che denota purezza. Gli antichi egizi la chiamavano neter-sent. Il nome ebraico è  lebona, in greco antico libanos o libanotos e in latino tus.  Tutte queste parole hanno un riferimento alla sfera divina e molto probabilmente questa connotazione era chiaramente diffusa anche all’epoca di Gesù.

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Resina di Franchincenso

Si tratta di una gomma-oleo-resina naturale, composta al 5-9% di olio essenziale, 65-85% di resina alcool solubile e il rimanente è gomma idrosolubile. Viene raccolta in forma di lacrima grande quanto una noce ed è di colore giallo pallido o ambrato.
La pianta da cui deriva è del genere Boswellia, famiglia delle Burseraceae.
L’incenso tipico dei tempi classici viene ricavato dalla Boswellia sacra.
Oggi giorno viene raccolto principalmente in Somalia, in particolare dal B. carterii e dal B. frereana. L’incenso prodotto in India viene tratto dalla B. serrata. Tipologie meno pregiate di questa sostanza derivano dalla B. papyfera, trovata in Etiopia, Sudan e Africa orientale.

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Alberi di Boswellia sacra

La B.sacra non è più comune come lo era allora a causa della progressiva desertificazione della penisola araba avvenuta negli ultimi 2000 anni, mentre la  B. carterii e la B. frereana spesso crescono attaccate alle rocce nell’Africa orientale.
B.carterii è un albero deciduo con foglie alternate. I fiori sono bianchi o di un rosa pallido. Il tronco è ricco di riserve schizogene contenenti la oleo-gomma-resina.
La gomma è ottenuta raschiando il tronco e/o facendo dei profondi tagli longitudinali di 4-8 cm con un particolare scalpello chiamato Mengaff. Esponendolo all’aria, il succo lattiginoso solidifica sottoforma di lacrime globulari; queste vengono raccolte quattordici giorni dopo. La consistenza desiderata della gomma viene ottenuta 3 mesi dopo. Avvenuta l’estrazione, gli alberi vengono lasciati riposare per 5-6 anni.
La stagione per la raccolta si estende da marzo fino a settembre per il B. carteri e fino a dicembre per il B. frereana.

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La oleo-gomma-resina che fuoriesce dagli intagli del tronco

Il franchincenso, detto semplicemente incenso nella letteratura antica, veniva utilizzato principalmente come sostanza odorosa per pratiche religiose, come unguento di imbalsamazione e per la cosmesi.
Questa sostanza è menzionata 22 volte nella Bibbia: 16 volte per funzione religiosa, 2 come tributo d’onore, 1 come articolo di vendita, 3 volte come prodotto ricavato dai giardini di Salomone.
La funzione rituale di questa resina è sottolineata anche dal fatto che la formulazione del incenso sacro è data da Dio a Mosè (Esodo 30:34 e Levitico 2:15 e 24:7).

Sappiamo grazie a Plinio che la produzione di franchincenso nel mondo antico si aggirava tra le 2500-3000 tonnellate l’anno. In accordo con Erodoto, 1000 talenti (44 tonnellate) di franchincenso venivano offerti ogni anno agli dei durante la festa di Bel a Babilonia.

Il kohl o polvere nera era utilizzato nell’antico Egitto come cosmetico per gli occhi e consisteva in polvere di galena spesso mischiata con il franchincenso, in Cina invece veniva usato per trattare la lebbra.
Oggi l’incenso viene bruciato nelle chiese cattoliche con una formulazione composta per 1/15 di resina di Liquidambar orientalis, 4/15 di benzoina e 10/15 franchincenso.

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Liquidambar orientalis

Non è possibile essere più dettagliati nello studio di questa sostanza in quanto nella letteratura storica, le varie specie dalle quali si ricava la resina venivano spesso confuse tra loro.

 

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Servitori con rami di mirra provenienti dal tempio funerario di Hatshepsut (XVIII dinastia)

Il secondo dono di origine vegetale è la mirra.
Questa deriva da molte piante del genere Commiphora delle Burseraceae.
La parola mirra è probabilmente ricavata dall’assiro murru. L’araba murr corrisponde all’ebraico môr del Nuovo Testamento (Matteo 2:11). Nella Grecia classica venivano usate parole myrra e smyrna, mentre nel latino si usano le parole murra o myrrha.

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Resina di C.myrrha

 

Si tratta di una oleo-gomma-resina naturale composta per il 3-8% d’ olio essenziale, 30-60% di gomma idrosolubile e 25-40% di resina alcol solubile. La mirra si presenta tipicamente in gocce affusolate irregolari di colore giallo rosso, spesso coperti da una polvere chiara. La gomma viene raccolta tramite profonde incisioni nella corteccia.
Commiphora myrrha si trova in forma di piccolo albero o un grande cespuglio che raggiunge i 3 metri. Le foglie trifoliate sono piccole e  sottili. La corteccia grigia biancastra è ricca di sacche schizogene di riserva ricche di gomma-olio-resina.

Un discreto numero di oleo-gomme-resine chiamate bdellium sono prodotte in Arabia e Somalia da  specie di Commiphora e quindi simili alla mirra e probabilmente utilizzate come mirra nei tempi classici. Il  bdellium è ricavato da C.erythraea ed era probabilmente il ntyw (incenso) degli antichi egizi e viene citato anche da Plinio.
La mirra comune  è ottenuta dalla C. myrrha; da questa specie viene ricavata l’essenza oleosa o stacte, l’incenso dei templi di Salomone.

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Pianta di C.myrrha

Questa sostanza era inclusa nel sacro unguento (Esodo 39:23-24) insieme all’incenso (Esodo 30:34). Viene menzionata in più passi dell’ Antico Testamento (Ester 2:12, Salmi 45:8,  Proverbi 7:17, Cantico 1:13, 3:6, 5:5, 5:13) anche se si pensa che il profumo usato sia in forma liquida e forse non derivata direttamente da essa.
La mirra è anche la bevanda offerta a Cristo sulla croce (Marco 15:23) in quanto all’epoca era utilizzata come lenitivo ed è anche uno degli unguenti spalmati sui corpi che venivano imbalsamati (Giovanni 19:39).

La pianta è anche citata nella mitologia classica, infatti nel X libro delle Metamorfosi di Ovidio, Mirra è impersonata dalla figlia di Cinira, re di Cipro. La fanciulla era stata maledetta dalla dea Afrodite con una incontenibile passione amorosa per suo padre, questo perché la madre di Mirra si vantava di avere una figlia più bella della stessa dea. Questo mito va a sottolineare l’importanza e la preziosità della sostanza in quanto associata alla bellezza di una divinità.

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Xilografia di Bernardi Picard che raffigura la nascita di Adone da Mirra

La mirra era utilizzata in tempi antichi per incensi e unguenti, mentre probabilmente veniva impiegata dagli Assiri per la realizzazione di un lucidalabbra con l’aggiunta di arsenico.
Questa sostanza è stata trovata sotto forma di preparato contro emorroidi e ferite. Internamente la mirra veniva usata per curare indigestione, ulcere e congestione bronchiale e per scaturire la presunta proprietà emmenagoga, ma studi recenti hanno dimostrato l’inefficacia per questi rimedi.
Con questo articolo abbiamo analizzato i doni dei re Magi e speriamo di aver descritto al meglio questi prodotti ricercati e il loro significato all’interno della Bibbia e soprattutto nel passo epifanico. Noi di Chronoxylon vi salutiamo e vi auguriamo una buona conclusione delle festività natalizie.

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Adorazione dei Magi, dall’Altare di Ratchis (età longobarda, VIII secolo d.C.)

Bibliografia:

Le piante nella gastronomia della casata d’Este

Con questo articolo noi di Chronoxylon vogliamo parlarvi della gastronomia nel Rinascimento, disciplina nella quale gli italiani si sono sempre distinti fin dal passato. Nell’affrontare questo tema prendiamo come riferimento Ferrara.

I dati archeologici provenienti dai vari siti della città offrono il migliore esempio di informazioni su semi e frutti in un contesto medioevale-rinascimentale.
Ferrara è sorta attorno ad un guado del Po nel VII secolo d.C. ed è un raro esempio di abitato italiano che non si innesca su di un precedente agglomerato urbano romano.
Fu governata dalla famiglia Este dalla seconda metà del XIII secolo d.C. in avanti. Sotto il suo potere Ferrara raggiunse una posizione significativa all’interno della Penisola, dove fiorirono le più grandi menti del Rinascimento nel XV e XVI secolo.

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Pianta della città di Ferrara del XVI secolo

Ma chi erano gli Este e quali erano le loro origini? Le abitudini alimentari che analizzeremo in questo articolo appartengono ad una famiglia dinastica italiana che nel tempo si intrecciò con moltissime casate principesche e reali e la sua storia coprì ben otto secoli diventando una delle dinastie europee più longeve.

Si suppone che gli Este provenissero dalla famiglia longobarda degli Obertenghi che fondarono la propria casata nel X secolo con Oberto I che venne creato conte nel 962 dall’Imperatore Ottone I. Il pronipote di Oberto I,  Alberto Azzo II (996-1097), fu il capostipite della dinastia d’Este che prese il nome dalla città padovana nella quale pose la sua residenza. Alberto Azzo II ebbe due figli, Folco I e Guelfo IV, quest’ultimo venne adottato dallo zio materno, Guelfo III di Carinzia, dopo la sua morte gli successe e nel 1070 divenne duca di Baviera. Egli generò il ramo d’Este tedesco che però continuò a mantenere il nome dinastico di Welfen. Da questa linea di discendenza deriveranno anche le casate tedesche dei Brunswick e degli Hannover. Da Folco I invece proseguirà la linea dinastica italiana ed un suo discendente, Azzo VI , guiderà la fazione guelfa del Comune di Ferrara. Nel 1208 Azzo VI prese il potere in città e formò la Signoria di Ferrara. A questo possedimento verranno successivamente aggiunti da Obizzo II anche i territori di Modena e di Reggio nel 1288 e 1289. Dopo alterne vicende gli Este riuscirono a rimpossessarsi dei propri territori agli inizi del XIV secolo. Con Nicolò III, gli Este affermarono definitivamente il proprio potere a Ferrara e nel 1471 Borso venne investito da papa Paolo II del titolo di Duca di Ferrara, mentre nel 1452 era già stato creato duca di Modena e Reggio dall’Imperatore Federico III. Con Borso nacque un nuovo stato nello scenario italiano che nel corso del XV secolo si consolidò e si estese grazie ad una politica altalenante con gli stati vicini e alla sua posizione intermedia tra i possedimenti Pontifici del Centro Italia e quelli Imperiali nel Nord. La dinastia estense a Ferrara si concluderà nel 1598 con l’estinzione del ramo principale dopo la morte di Alfonso II. Questo evento funse da pretesto per papa Clemente VIII che rivendicò il ducato come dominio della Chiesa, infatti era previsto che alla conclusione di una linea dinastica diretta dei feudatari dello Stato Pontificio i loro territori dovessero tornare sotto il diretto controllo del papa. Dopo un primo periodo Cesare d’Este-Montecchio, salito al potere nel ducato, dovette cedere Ferrara al pontefice, ma mantenne i territori di origine imperiale di Modena e Reggio. Da questo momento gli Estensi iniziarono un periodo di decadenza, in quanto con la perdita di Ferrara non erano più uno stato chiave tra la Repubblica di Venezia, i territori imperiali e i domini della Chiesa.

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Schema dell’albero genealogico degli Este

Dopo questa introduzione storica parliamo dei dati archeobotanici rinvenuti a Ferrara. Dagli studi condotti sui ritrovamenti vegetali che si compongono di semi, tessuti e pollini si è potuto avere numerose informazioni sulla vita cittadina tra il X e il XVI secolo, in particolare sulla dieta, coltivazione, usi e lavori tradizionali come la produzione di vino, di olio e mostarda e a volte anche sullo status sociale.
Tutto il materiale raccolto per questo studio proviene da aree di scarto: nel periodo medioevale la spazzatura rinvenuta era stata depositata in buche profonde scavate per l’uso oppure direttamente nelle latrine; mentre nel Rinascimento venivano costruire delle cantine di mattoni  che venivano sigillate con solo una o due piccole aperture, che archeologicamente si chiamano caditoie, nelle quali veniva poi gettato lo scarto.

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Palazzo del municipio

Durante il 2001, mentre si eseguiva il restauro della piazza municipale vennero fatte importanti scoperte archeologiche. Queste consistono nelle stanze di deposito di scarti del palazzo ducale.  La datazione di questo edificio va dal 1243 fino al XVI secolo. Lo scavo venne completato nel 2002 dalla Soprintendenza archeologica dell’Emilia-Romagna. Nell’articolo ci focalizzeremo sui semi e i frutti trovati nella vasca ducale, una cantina di mattoni per spazzatura sigillata al piano basale del palazzo della famiglia d’Este. Il contenuto della stanza di scarto  è ben preservato ed è stato datato attraverso il vetro e la terracotta qui ritrovati. Questo periodo è ascritto tra 1450 e prima del 1479 quando Eleonora d’Aragona, la moglie del duca Ercole I d’Este decise di demolire questa parte del palazzo ducale per creare una entrata più grande nel giardino che oggi è piazza municipale.

Da questa cantina vennero selezionati in modo casuale alcuni semi e frutti che sono stati analizzati tramite stereomicroscopio e microscopio elettronico e grazie all’uso delle chiavi dicotomiche si sono riconosciute le varie specie.
Ora descriviamo brevemente alcune delle piante individuate grazie a questo studio che ha preso in esame 70.000 semi i quali appartengono a 143 specie, 99 generi e 42 famiglie diverse. Implementiamo anche le descrizioni con il Ricettario scritto da Messisbugo, grande chef di casa d’Este:

  • Ficus carica
    Si tratta del fico, una pianta appartenente alla famiglia delle Moraceae, e il suo uso è conosciuto sin dagli antichi egizi.
    I frutti venivano consumati freschi e secchi ed usati come ingredienti per ricette elaborate o semplicemente serviti a fine pasto. La loro presenza nel pozzo di scarto era piuttosto alta, questo sta a significare che, insieme alla Vitis vinifera, era un ingrediente molto utilizzato.

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    Ficus carica

  • Vitis vinifera
    La vite è conosciutissima ed utilizzata ancora oggi; fa parte della famiglia delle Vitaceae ed il suo utilizzo non era limitato alla produzione del vino: più di un terzo dei piatti presenti sul ricettario include l’uva passa. Messisbugo raccomanda di tenere sempre in dispensa acini freschi, secchi o seccati al sole tanto quanto prodotti di vino, aceto e agresto.
    Il costume dell’epoca prevedeva di servire uva fresca a cene importanti come accompagnamento ad ogni piatto. Intere pietanze prevedevano come alimento principale l’uva fresca o uva passa, prevalentemente servita con carne e pesce.

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    Vitis vinifera

  • Olea europaea
    La tradizione di coltivazione dell’olivo era già conosciutissima ai tempi degli antichi romani e si protrae ancora in questo periodo senza battute di arresto. Le olive erano usate spesso come insaporitore e il ritrovamento dei noccioli interi nelle vasche ci suggerisce che venivano mangiate da sole a fine pasto come frutto.

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    Frutti di Olea europaea

  • Punica granatum
    In contrasto con gli altri pozzi presenti in città, il contenuto della  vasca ducale è costituito da un terzo di scarti di melograno. Questo è originario del Vicino-medio Oriente, ma coltivato da tempo nel Caucaso e nella fascia mediterranea.
    I semi di melograno venivano utilizzati come accompagnamento ad altri cibi o usati grezzi in salse per carne o pesce, in particolare le anguille.

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    frutti e fiori di Punica granatum

  • Cucumis Melo
    La pianta del melone arriva dalla Persia tramite gli egizi, mentre in Italia lo portano i romani come attesta Plinio il Vecchio.
    Il melone era mangiato fresco o utilizzato come ingrediente per piatti elaborati. I semi venivano canditi e serviti come confetti così come quelli della zucca a fiasco, Lagenaria siceraria. Quest’ultima veniva anche utilizzate come dolce e il frutto era spesso cotto per far torte o grigliato.

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    Cucumis melo

  • Frutta:
    Molta frutta veniva consumata dalla nobile famiglia d’Este, infatti troviamo semi di Malus domestica (mela), Pyrus communis (pera), Prunus persica (pesca), Prunus avium (ciliegia), Fragaria vesca (fragola).
    Queste non hanno un utilizzo tanto diverso da quello odierno, infatti venivano consumate prevalentemente fresche o in forma di marmellata.
    Vogliamo però descrivere meglio altri frutti in quanto possiedono usi dell’epoca particolari:

    • Prunus armeniaca
      L’albicocco era un albero da frutto particolarmente raro, infatti questo venne piantato  vicino al giardino delle duchesse per portare ulteriore notorietà al giardino.

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      Prunus armeniaca

    • Rubus Fructosus e Morus nigra
      Le more di rovo e gelso venivano spesso utilizzate cotte. I frutti della Rubus frucicosus venivano inoltre usati per la loro capacità di dar colore nero alle pietanze, invece i frutti del Rubus caesius (Rovo bluastro) per il loro colore blu.

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      Frutti di Morus nigra

    • Physalis alkekengi
      Spesso noi occidentali pensiamo che il frutto dell’alkekengi sia stato importato solo di recente e invece ci sbagliamo. Era  consumato nella penisola italica già nel XVI secolo dalle più ricche famiglie dell’epoca. Questo frutto veniva infatti portato dall’Oriente tramite le fiorenti tratte commerciali.

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      Pianta di Physalis alkekengi

  • Rosa spp.
    La rosa è sempre stata una pianta ornamentale, ma alcuni cuochi hanno provato ad utilizzarla in cucina; i petali di rosa venivano usati per produrre l’acqua di rosa o la rosata, un liquido aromatico usato in 80 piatti presenti nel ricettario.
    Si citano spesso bevande aromatizzate ai fiori come la Lithospermum officinale e Buglossoides arvensis, i quali venivano anche mangiati al naturale.

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    Fiori e boccioli di Rosa.

  • Citiamo ancora Coriandum sativum (coriandolo), Petroselinum sativum (prezzemolo) e Foeniculum vulgare (finocchio), Illicium verum (anice stellato) in quanto sono le più abbondanti piante aromatiche e medicinali ritrovate.
    L’anice veniva utilizzato per dolci o decorazioni ma anche come ingrediente per primi e secondi piatti. Il coriandolo veniva usato nelle zuppe a crudo, infatti nella vasca ducale lo si trovava intatto.
    Il finocchio era spesso conservato nell’aceto e servito come verdura a fine pasto mentre i semi venivano canditi e utilizzati come decorazione.

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    Fiori di Illicium verum

I frutti del sorgo sono stati trovati non cucinati, infatti provengono probabilmente dalle scope in quanto venivano fatte con le inflorescenze secche di questo cereale. Questo fa pensare che la vasca venisse usata anche per tutti gli scarti di pulizia del palazzo.

Dopo questi studi è stato fatto un confronto iconografico anche con gli affreschi del salone dei mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara datati al 1469-1570.

Aprile

Affresco rappresentante il mese di aprile

Tre solo le piante legate strettamente con la corte degli Este e il lusso:

  • Albicocca:
    il dipinto che rappresenta Agosto presenta una ghirlanda di albicocche e foglie ed è posto dietro al duca Borso d’Este il quale sta ricevendo i suoi dignitari.
    Questo suggerisce che l’albero di albicocco doveva essere stato piantato nel giardino del palazzo come simbolo di ricchezza.
  • Melograno
    Nel dipinto di Aprile, dietro la corte delle donne e dei gentiluomini radunati nel giardino dell’Amore, troviamo cespugli carichi di melograni come allegoria del trionfo di Venere.
    In Marzo, i melograni sono inseriti nei festoni sopra Borso d’Este che amministra la giustizia. Il melograno era considerato come simbolo di fertilità e i fiori come allegoria del paradiso.
  • Garofano:
    Nel dipinto Aprile un garofano è afferrato saldamente da Venere insieme ad una donna e un uomo. Il bouquet di questa pianta è incisa in un riquadro della porta di entrata del palazzo Schifanoia. Si tratta del fiore che simboleggia il Rinascimento Italiano.

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    Affresco rappresentante il mese di marzo.

Che cosa fa di un cibo un cibo di lusso?
Il cibo di lusso è raro e migliore ed ha un valore sociale in quanto riconosciuto come di prestigio. La società dell’epoca enfatizzava i cibi orientali e preferiva la qualità alla quantità, diversamente dall’età classica dove il simbolo di agio e ricchezza stava proprio nell’offrire agli ospiti una moltitudine di pietanze.
La Olea europaea e il Coriandrum sativum con la Punica granatum e il Cicer arientium venivano incorporati al menu locale per ampliare la scelta culinaria rinascimentale.

Inoltre i semi trovati nella vasca ducale risultano essere più grandi di quanto siano oggi. Questo ci suggerisce che la selezione di cultivar di interesse non era ancora progredita e quindi queste varietà erano piuttosto nuove. (punica granatum, Mespilus germanica, Morus nigra, Cucumis melo e Portulaca oleracea)
Però potremmo cadere in errore. Questi potrebbero essere anche ingredienti utilizzati normalmente, ma il fatto che i semi siano così dissimili da quanto lo siano oggi ci può anche suggerire che i nobili andassero alla ricerca di cultivar particolari e ricercati, magari più ancestrali. La maggior parte dei vegetali veniva coltivati, ben pochi erano selvatici.

Con questo concludiamo questa veloce descrizione delle tavole imbandite del palazzo ducale d’Este. Vi salutiamo, al prossimo articolo!

Come si faceva…la lacca?

In questo nuovo articolo, noi di Chronoxylon, vogliamo parlarvi di un materiale poco conosciuto in Europa che invece è stato di largo uso in Oriente,  la lacca.

Essa è largamente diffusa in tutta l’Asia e il suo principale uso è quello di rivestire oggetti in legno di cedro o, come vedremo in seguito, per proteggere dall’ossidazione i metalli, in quanto si tratta di un insieme di polimeri resistenti all’acqua, alcool, oli e acidi.

Il motivo per cui questo materiale viene utilizzato solamente in Asia deriva semplicemente dal fatto che gli alberi dai quali si estrae la resina si localizzano in questa parte del mondo.
Le piante in esame sono tre e da queste derivano altrettante tipologie diverse di lacca, che vanno a caratterizzare le popolazioni che le utilizzano proprio in base alla diffusione dei diversi areali.
Queste sono:

  1.  Rhus verniciflua, il cui habitat è Cina, Giappone e Corea.
  2. Rhus succedanea, che vive nel nord Vietnam e Taiwan.
  3. Malanorrhoea usitata, tipica del Thai e Myanmar.

Gli ingredienti ricavati dalla linfa di questi alberi sono differenti e rispettivamente sono: Urushiollaccolthitsiol.

Definiamo per un momento il termine resina da un punto di vista botanico: Le resine scorrono nei canali resiniferi nei quali troviamo composti terpenici volatili e non volatili e composti fenolici o oli essenziali. Il loro ruolo nella fisiologia della pianta non è chiarissimo ma sicuramente, data la composizione, è un modo per trasportare molecole organiche complesse coinvolte nella produzione di, ad esempio, lignina, carotenoidi e molecole insetticide o repellenti. Sembrano avere anche la stessa funzione del lattice, quindi occludere le ferite, ma data la sua viscosità elevata la fuoriuscita è nettamente inferiore a quest’ultimo.
Per questo motivo solo alcuni alberi vengono usati per l’estrazione, in quanto in questi è possibile estrarne una quantità maggiore.

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Resina che sgorga dal taglio del tronco

Al fine archeologico si può localizzare un reperto andando ad identificare la composizione della lacca associando i tre composti all’areale.Studiando queste coperture utilizzando tecniche analitiche come la “Spettroscopia di Risonanza Magnetica Nucleare“, oppure “l’infrarosso di Fourier” e i “raggi X” possiamo verificare lo stato delle coperture ma non ricavarne la composizione. Per questo bisogna utilizzare tecniche come la “spettrometria di massa” e “la gascromatografia pirolitica“.
Per quanto riguarda l’articolo non approfondiremo queste tecniche ma ci focalizzeremo sulla Rhus verniciflua, dunque sulla lacca giapponese, e nei suoi utilizzi.

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Foglie di Rhus verniciflua

La Rhus verniciflua, detta anche Toxicodendron vernicifluum, è conosciuta anche con il nome comune di albero cinese della lacca. Come già accennato si tratta di una pianta asiatica di circa 15 metri di altezza facente parte del genere toxicodendron. La sua origine è cinese e del subcontinente indiano, ma si estese anche in Corea e Giappone tramite la coltivazione. La linfa è tossica in quanto causa dei rash cutanei, ma la si estrae per realizzare una lacca molto resistente. Da questa si crea la lacca cinese, giapponese e coreana, le quali differiscono per metodo di preparazione.

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Alberi di Rhus verniciflua intagliati per la raccolta della resina

La resina viene raccolta tra i mesi di giugno e novembre in quanto l’acqua presente nell’ essudato è minore. Una eccessiva presenza di quest’ultima va ad influire negativamente sulla qualità della lacca.
La solidificazione è meglio portarla avanti con una umidità del 70-85%, condizione che si trova durante la stagione delle piogge giapponese. La ragione di questo periodo è anche dato dal fatto che vi sono tante spore fungine e altri possibili parassiti e dunque la pianta produce più  resina per meglio proteggersi.
L’estrazione avviene eliminando la corteccia e vengono applicati tagli sulla superficie nuda in modo che l’essudato fuoriesca.
Esso non è altro che un’emulsione di acqua-olio biancastra, e la porzione di grassi consiste nel 60-65% di urushioli.
La qualità della lacca dipende dalla quantità di urushioli e dal livello di attività di ossidazione degli enzimi laccasi.

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Resina appena raccolta in ossidazione

Ora descriviamo il metodo di preparazione:
Dopo averlo estratto dall’albero si stira l’essudato in un recipiente aperto a temperatura ambiente (20°C) per 1 ora e 30 in modo che si stenda e si adagi meglio nel contenitore. Successivamente si aumenta la temperatura fino a 45°C per 2/4 ore finché il contenuto di acqua non è sceso al 4/2%; questo processo è definito “sugurome” e serve per eliminare l’olio urticante e allergenico dal materiale.
Nel processo è fondamentale il controllo della temperatura che deve essere monitorata per non compromettere l’attività degli enzimi in quanto promuovono la solidificazione della lacca.
Se viene aggiunta polvere di ferro nella resina, questa diventa nera con il suo riscaldamento e per la polimerizzazione. Questa non è l’unica tecnica per scurire la lacca, infatti possono essere utilizzati inchiostro o ceneri (la tecnica varia con il mutare del periodo storico).

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Lacca pigmentata e Lacca pulita

In questo modo la resina diventa pulita, ha cambiato colore ed  è aumentata la sua viscosità.
Il liquido rimanente, conosciuta come “lacca grezza” consiste in Urushioli e oligo urishioli con una piccola percentuale d’acqua. Essa non viene considerata uno scarto ma a volte la resina pura viene usata come copertura di base e la lacca grezza come strato conclusivo. Questo per quanto riguarda l’arredo di legno di cedro in modo che non si deformi o rompa, essa viene applicata in 30 strati sovrapposti. La lacca ora è stesa sull’oggetto e fatta asciugare per 1 giorno a 20/25°C.
La solidificazione  è causata dall’ossidazione degli urushioli, e come per gli altri ingredienti della lacca grezza il processo è causato dagli enzimi presenti nella resina; le laccasi sono gli enzimi più importanti per quanto riguarda la polimerizzazione.

Oro togidashi makie su lacca nera, Giappone, Periodo Muromachi XV secolo

Oro togidashi makie su lacca nera, Giappone, Periodo Muromachi XV secolo

Ora facciamo un volo veloce sulla sua storia per poi descriverne un uso poco conosciuto, ovvero sulle armi e armature giapponesi.

Il suo utilizzo è conosciuto in Giappone da centinaia di anni. è stato ritrovato un vaso di terracotta e dei pettini di legno con uno strato di copertura di urushioli datati al neolitico giapponese, 4500 anni a.C.
Il suo uso era esclusivo in Oriente, ma durante il XVI secolo sono stati portati tanti di questi oggetti laccati in Europa, e da allora anche gli europei cominciarono ad esserne interessati e a volerla ricreare con scarsi risultati.

Nel XX secolo vennero create numerose resine sintetiche utilizzate per il rivestimento di oggetti, in particolare per i manufatti artistici.
Solo di recente si è riusciti ad ottenere una lacca a base di Urishioli sintetica.

Focalizziamoci ora su questo uso a noi non conosciuto:
La “lacca grezza”, ovvero il liquido che viene prodotto durante l’essiccazione, veniva utilizzata sulle armi e armature giapponesi per limitarne l’ossidazione e la loro suscettibilità ai fattori ambientali, oltre che per prepararle alla decorazione;
Applicare la lacca sulle lastre metalliche è piuttosto difficile in quanto, essendo idrofilica, il composto non aderisce facilmente ad una superficie inorganica e non porosa. Questo ostacolo viene superato irruvidendo la superficie con una lima o con una pietra granulosa. In  seguito viene riscaldato il metallo in modo che la lacca grezza asciughi immediatamente.
Sfortunatamente, se la temperatura non è controllata a dovere, rimangono delle tracce di grasso sulla superficie e il composto di  urushioli può rompersi in pezzi.
Una volta indurito il primo strato, veniva fatto aderire al di seguito un telo di tessuto o di carta per sostenere lo strato base (urushi-shitaji) di lacca misto ad agenti fibrosi come argilla, farina o canapa sminuzzata.
Questi  venivano trattati a temperatura ambiente in condizioni di alta umidità relativa. Successivamente si stendevano altri 11 strati di lacca e a volte, dei pigmenti venivano applicati al di sopra di questi strati preparatori.
Le lacche delle armature sono spesso impreziosite da intarsi.
Molte di queste decorazioni sono fatte con metalli come oro, argento e rame, che venivano mischiate con l’urushi non trattato sotto forma di fiocchi, foglie o polvere.

Nel caso in cui la lacca viene lavorata a bassa umidità relativa il processo di solidificazione non avviene completamente, essa si irrigidisce troppo portando col tempo la formazione di rotture.
La spaccatura della lacca è irreversibile e può portare al collasso dell’intera struttura.
Altro nemico della lacca è la luce, in particolare la luce ultravioletta. La sua fotosensibilità ne provoca decomposizione.
La rottura della lacca e le microfessure provocate causano l’entrata di acqua all’interno che provocano deterioramento dei metalli.

Armatura-da-samurai-Piva-Milano

Yoroi (armatura Samurai) di inizio periodo Edo (1615-1867)

Un altro fatto molto interessante è il caso del tempio dorato di Kyoto. Quando hanno restaurato le foglie dorate al suo interno, queste vennero ricoperte di lacca in modo da preservare l’oro. Oltretutto se veniva rubato lasciava una traccia rossa sulle mani del ladro rendendolo immediatamente identificabile.

Con questo concludiamo la presentazione di questo materiale a noi poco conosciuto in quanto presente solo nelle dei palazzi settecenteschi Europei.
Speriamo  di avervi incuriosito su un materiale per noi poco conosciuto ma largamente utilizzato nell’architettura, nell’arte e nelle preziosissime armature orientali.

Noi di Chronoxylon vi salutiamo e vi diamo appuntamento al prossimo articolo qui sul blog o ai prossimi post sulla nostra pagina di Facebook dove continueremo a parlare di Arte, Storia e Botanica.

 

Bibliografia:

Jan BARTUS, et al. Oriental Lacquer III. Composition of the Urushiol Fraction of the sap of Rhus verniciflua. Polymer Journal, Vol 26. No.1 pag. 67-78

Noriyasu NIIMURA. Determination of the type of lacquer on East Asian lacquer ware. Elsevier, international Journal of Mass Spectrometry.

Suzanne DALEWICZ-KITTO, et al. Japanese armour and the conservation of a Sakakibara family armour at the Royal Armouries. Routledge, Journal of the istitute of conservation.

http://poisonivy.aesir.com/view/fastfacts.html

 

 

 

 

Chewing gum: dono per gli dei Maya

L’argomento odierno tratta di un prodotto di uso comune al giorno d’oggi, ma che ha un origine antica e collegata con diverse tradizioni. Questo è il chewing gum, il quale prende spunto dal Chicle, gomma naturale molto conosciuta dai popoli mesoamericani. Tra questi i primi che la scoprirono e la utilizzarono in modo massiccio furono i Maya, ma per comprendere a pieno i suoi utilizzi dobbiamo prima analizzare la religione e la visione della natura per questo popolo antico.

La storia dei Maya è molto complessa e lunga, i primi elementi aggregativi sono stati identificati nel 1500 a.C., l’epoca di maggior splendore di questa civiltà va dal 200 d.C. al 925 d.C., per poi avere una fase di dominazione da parte dei messicani che durerà fino al 1200 e un ultimo periodo di decadenza che si protrarrà fino all’arrivo degli Europei e della loro definitiva estinzione nel 1540. Questo lasso di tempo raggruppa 3000 anni nei quali le credenze e le forme sociali muteranno notevolmente. L’elemento comune che però continuerà ad essere evidente è il rapporto tra l’uomo e le divinità. Secondo le credenze Maya gli esseri viventi possedevano una forza vitale, identificata con il nome itz, nell’uomo e negli animali essa era riconosciuta nel sangue, nel sudore e nel latte; mentre per i vegetali era la linfa, la cera e il lattice.

La gomma più utilizzata da questa popolazione e da cui si è ricavata per anni la base per la gomma da masticare è il Chicle, detta tziktli dagli Aztechi. Questa viene estratta dalla Manikara zapota, detta colloquilamente sapodilla, appartenente alla famiglia delle Sapotaceae.

Manilkara zapota

Manilkara zapota

L’estrazione avviene applicando dei tagli piuttosto profondi sul tronco con una trama a zig-zag. Questi vanno ad intaccare l’integrità dei dotti latticiferi che contengono appunto il lattice facendolo sgorgare all’esterno.
Questo liquido viscoso biancastro non è altro che un’emulsione di granuli di diversa natura immersi in una soluzione acquosa. La sua funzione fisiologica è quella di trasportare sostanze ma anche quella di ricoprire le ferite grazie alla sua solidificazione causata dal contatto con l’aria che ne provoca l’ossidazione.

Ferite per la raccolta del lattice.

Ferite per la raccolta del lattice.

La raccolta viene ultimata mettendo un contenitore di ferro che si impianta nel tronco alla fine della ferita più bassa. Di tanto in tanto è necessario togliere la gomma formatasi che occlude la ferita per far ripartire la fuoriuscita del liquido.
Attualmente la si utilizza dopo una lenta cottura con aggiunta di acqua e successivamente la si miscela con altre gomme e aromi per creare il chewing gum che noi tutti conosciamo.

Chicle in cottura miscelato con acqua

Chicle in cottura miscelato con acqua

Al tempo dei Maya invece questa gomma veniva masticata grezza, senza troppi trattamenti. Essa era priva di sapore, compatta e senza particolari effetti sulla salute se non quella di promuovere una blanda igiene orale e sfogare il nervosismo e soddisfare il desiderio masticatore insito nell’uomo.
Nella società Azteca l’utilizzo del Chicle era ben regolamentato dagli usi e costumi. Gli uomini non potevano masticare gomma, i bambini e le donne non sposate potevano masticare in pubblico e le donne anziane potevano masticarla in privato per migliorare l’alito. La regola principe che vige ancora oggi è di non ingerire la gomma ma di sputarla una volta finita la masticazione.
Per questa popolazione la gomma venne associata alla dea Tlazolteotl, conosciuta anche come la grande tessitrice e filatrice legata alla nascita, alla medicina e alla Luna oltre che alla stregoneria.
In alternativa può anche essere associata a Tlaelquanai, colei che mangia i peccati delle persone per assolverli da essi prima della morte.

Tlazolteotl

Tlazolteotl

Un altro utilizzo del Chicle era più legato alla religiosità Maya. Come incenso utilizzavano una resina chiamata Copale, estratta dalla Bursera bipinnata, famiglia delle Burseraceae, ma il problema principale era che non prendeva fuoco facilmente, allora veniva avvolta nella gomma naturale così da creare un vero e proprio incenso. Il fumo che veniva prodotto dalla sua combustione era considerato come cibo per gli dei, in quanto racchiudeva la forza vitale delle due piante.
Questi venivano usati poco prima dei sacrifici umani di massa.

Incensiera con ceneri di copale e chicle

Incensiera con ceneri di copale e chicle

La Manikara zapota è stata poi utilizzata come legname in quanto è un materiale molto coriaceo, infatti deve essere lavorato quando è ancora verde e poi lasciato asciugare in modo che diventi “duro quanto il ferro”. Per rafforzare questa idea di durezza e resistenza, si sa che rametti di questo legno venivano utilizzati durante la realizzazione di coltelli in ossidiana.

Essendo una pianta con una certa relazione con gli dei, il suo legname veniva utilizzato esclusivamente per la costruzione di templi, palazzi reali e intagli religiosi per quanto riguarda l’edilizia. Il legno di Zapote veniva usato anche per creare bare e lapidi, come possiamo trovare nella tomba del Re Hanab-Pakal, oltre che scatole per oggetti di valore.

Re Hanab-Pakal

Re Hanab-Pakal

Questo legname venne utilizzato intensamente nel tardo periodo formativo fino a renderne scarsa la disponibilità nell’età classica. Per questo motivo la sapodilla veniva coltivata in aree chiamate ‘‘pa¨ k’-al’’, luoghi dove questo albero era protetto e occasionalmente coltivato. Alcuni studiosi sostengono che nel  periodo classico si diffuse il fenomeno del “bosco sacro” ovvero parte di terra in cui vi sono alcune specie botaniche associate a divinità o risiedenti su un luogo sacro riconducibili al ‘‘pa¨ k’-al’’.
Il suo uso riprese alla fine dell’età classica e questo lo si può vedere nel sito di Tikal, dove troviamo nei vari templi e in due dei palazzi presenti, degli architravi di sapodilla datati circa al 750 a.C. tramite il carbonio 14.

Sito di Tikal

Sito di Tikal

Oggigiorno queste tradizioni si son perse e non sono conosciute a tutti. La gomma da masticare odierna non ha più molto da condividere con il chicle in quanto viene lavorata con sostituti sintetici, ma di sicuro non sarebbe mai esistita senza di essa.
Con questo vogliamo stuzzicarvi a pensare come tutte o per lo meno la maggior parte delle cose che mangiamo o utilizziamo oggi derivano dalla rifinitura di antiche tradizioni che sarebbe bene non dimenticare anche solo come lezione di vita. Ogni cosa può evolvere senza un limite ben preciso e possiamo ben vederlo con la gomma da masticare che oramai è presente in tutto il mondo e nelle più diverse sfumature.

Noi di Chronoxylon vi salutiamo e vi diamo appuntamento al prossimo articolo.

Come si faceva…il vetro?

Con questo articolo apriamo una nuova area tematica del nostro blog che chiameremo appunto “Come si faceva…”, uno spazio dedicato alla produzione artigianale di oggetti attraverso l’utilizzo di elementi o composti vegetali. Infatti nell’antichità la flora era uno dei mezzi primari più facilmente reperibili e con essa l’uomo è riuscito ad inventare moltissime cose, una di queste è il vetro!
Questo materiale è prodotto dalla solidificazione di un composto liquido che non ha subito il processo di cristallizzazione. In linea teorica tutti i liquidi potrebbero essere vetrificati, ma nella pratica ciò è possibile solo a quei materiali che hanno una velocità di cristallizzazione molto lenta. L’ossidiana è un vetro prodotto in modo naturale, ovvero è il risultato di vetrificazione del magma, composto da silicati, che fuoriuscendo dal vulcano si raffredda rapidamente al contatto con l’aria esterna e non ha il tempo sufficiente per creare delle strutture cristalline.  Nell’antichità, così come oggi, per la produzione del vetro si utilizza principalmente l’ossido di silicio che è contenuto nelle sabbie. Per poter fondere la silice ci vuole una temperatura che si aggira attorno ai 1700 °C, valore estremamente elevato per qualsiasi fornace del passato, quindi per poter produrre il vetro era necessario utilizzare un fondente che abbassasse il punto di fusione dell’agglomerato. Gli unici composti che hanno la funzione di fondente sono gli alcali; un esempio molto ricorrente è il carbonato di sodio, che permette alla miscela di fondere a temperature più basse e allo stesso tempo rende la massa vetrosa più a lungo malleabile. Gli alcali possono essere di origine minerale (soda) o vegetale (soda e potassa). Molto probabilmente questa funzione della soda venne scoperta casualmente nel 4000 a.C. dai Fenici, come ci racconta Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, che utilizzarono accidentalmente come supporto per cucinare sul fuoco dei blocchi di soda naturale. Questi si fusero e mescolandosi con la sabbia della spiaggia produssero del materiale vetroso. Il vetro, scoperto quindi dai Fenici, venne da loro commerciato nel Mediterraneo e uno dei primi popoli che riuscirono a riprodurlo furono gli Antichi Egizi nel 1500 a.C.

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Vasetto egizio (XVIII dinastia)

I romani utilizzarono come fondente la soda contenuta nei blocchi di natron, un carbonato idrato di sodio estratto da delle miniere in Egitto e Macedonia. Questo sale veniva utilizzato dagli antichi egizi anche per il processo di imbalsamazione per estrarre i liquidi dai tessuti del corpo e quindi per permettere la loro conservazione. Con le invasioni barbariche e il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, le rotte commerciali vengono interrotte e quindi diventò sempre più difficile l’approvvigionamento di questo prezioso sale. Dall’età tardo-antica i vetrai iniziarono ad utilizzare, a momenti diversi in base alle aree geografiche, come fondente le ceneri delle piante.

Corno Potorio da Spilamberto (età longobarda)

Corno Potorio da Spilamberto (età longobarda)

Queste ceneri potevano essere ricavate:

  • da piante boschive come le felci e il faggio. Teofilo nel suo ricettario annota che per la produzione del vetro si utilizzavano due parti di cenere di legno di faggio e una parte d sabbia, mentre Pseudo Eraclio scriveva che le felci venivano raccolte prima della festa di San Giovanni (24 giugno), successivamente messe a seccare e ridotte in cenere. Questi vegetali davano origine ad un fondente potassico
  •  da piante della famiglia delle Chenopodiaceae che contiene più di 1300 specie in 120 generi. Sono piante presenti in tutto il mondo e prediligono le zone desertiche o semidesertiche. Alcune di queste sono alofile obbligate, un esempio molto presente nella storia dell”uomo è la Salicornia ( Salsola kali) la cui cenere fungeva da fondente sodico.
sarsola kali

Sarsola kali

In mancanza di queste piante potevano essere utilizzati come fondenti anche la cenere di cereali come il grano, l’orzo e la segale oppure la vegetazione palustre come la sala e la canna, anche se un editto della Repubblica di Venezia del 1306 imponeva l’utilizzo della Salicornia come fondente per la produzione del vetro.

Durante il Medioevo non fu mai abbandonato l’utilizzo del natron e se si riusciva ad ottenerlo era preferibile alla Salicornia. Tuttavia a partire dalla metà del XIII secolo iniziò una grossa importazione dal Mediterraneo orientale della cenere vegetale a base sodica proprio da parte della Repubblica di Venezia. Essa veniva chiamata allume catino e giungeva già in polvere dal Libano, dalla Siria, dall’Egitto e dall’Armenia e fu la fonte di un fiorente commercio. Era severamente vietato ai vetrai veneziani di vendere il fondente ad altri stati. Questa pianta iniziò ad essere coltivata anche alcune zone della costa della Provenza, della Sicilia e della Toscana, per rifornire i vetrai di queste aree.

Questa è la storia di come è nato ed è stato prodotto il vetro nel tempo, materiale molto distante dal mondo vegetale ma che senza di esso non si sarebbe sviluppato così come lo conosciamo oggi.

Gli agrumi di Villa Pisani

Quest’oggi parleremo di una piccola mostra tenutasi a Stra, più precisamente in una delle ville venete più prestigiose dell’area, Villa Pisani. Questa maestosa costruzione, di grande importanza storica, possiede una Orangerie; Cos’è questo luogo che ritroviamo spesso nelle ville Sei/Settecentesche? Si tratta di uno spazio in cui venivano custodite le piante di agrume in grandi vasi ,per poter essere trasportate dalla serra all’esterno e viceversa, o in terra. La funzione di questi alberi era di certo quello di arredo grazie ai loro colori vivi e i loro aromi intensi, ma non bisogna sottovalutare anche l’aspetto produttivo, infatti dalla vendita di questi (all’epoca) rari frutti si poteva autosostenere la gestione della struttura. Nel caso di Villa Pisani la frutta veniva spedita a Venezia, a Monza oppure all’estero come in Austria o verso San Pietroburgo.
Qui, nel 1815 si potevano contare 402 agrumi in vaso e 71 agrumi coltivati a terra. Il vanto della collezione era di riuscire a possedere o creare nuove varietà di piante da frutto cosa che il vicerè Ranieri fece portando alla villa 12 cultivar innovative per l’epoca.
Nel XIX secolo le Orangerie cominciarono a perdere il loro interesse in quanto i loro frutti persero valore e i costi di produzione si fecero troppo alti.
Ma perché questi alberi ebbero un ruolo così importante in questo periodo?
Non dobbiamo sottovalutare l’aspetto culinario;  Sin dal tempo degli antichi romani il cibo e le spezie di difficile reperibilità hanno avuto un ruolo centrale per simboleggiare l’ostentazione di potere e gli agrumi non son da meno. Il loro luogo di origine è il Sud-est asiatico; Questi vennero portati nell’area mediterranea nel VIII secolo d.C. con la conquista della Spagna da parte degli Arabi e successivamente in Sicilia nel XI secolo d.C. Col tempo si diffusero in tutto il Mediterraneo anche se con grande difficoltà in quanto si tratta di piante dalle esigenze particolari; Infatti troveremo indizi della loro coltivazione in Toscana, nel Veneto e nel centro Europa solo nel XVII secolo. Il loro prestigio stava infatti nell’onerosità della loro coltivazione in quanto bisognava creare delle strutture ad hoc per il riparo delle piante nel periodo invernale. Le serre riscaldate da bracieri venivano usate per le piante in vaso, particolari strutture lignee smontabili venivano usate per le piante a terra. Tutto questo ovviamente aveva un costo non indifferente e dunque alla portata di pochi.

entrata

Ingresso all’Orangerie

Ma ora addentriamoci nella mostra. Dopo una lunga passeggiata sotto i numerosi alberi del parco arriviamo alla cancellata dell’Orangerie, la cui entrata è  custodita da due statue di cani da guardia. Oltrepassati i suoi custodi ci ritroviamo in un piazzale ricco di alberi di agrumi e statue a tema agreste come la dea Cerere o il dio Bacco. I vasi che custodiscono le piante sono in parte originali del XVII secolo e in parte riproduzioni in modo da ricreare l’aspetto che doveva avere all’epoca la piazza. Passeggiando tra le piante troviamo diverse cultivar mai viste e forme assai peculiari che, al giorno d’oggi, non riusciamo a trovare con facilità perché troppo poco produttive o di scarso interesse agrario.
Cominciamo dunque a parlarne utilizzando le informazioni che ci sono state date dalla mostra.

Inquadramento tassonomico

Inquadramento tassonomico

Iniziamo con il Cedro, Citrus medica detto anche Cedro Vozza Vozza. Si tratta della prima pianta di Citrus introdotta dall’India nel IX secolo a.C. attraverso la Persia (lo ritroviamo anche nel Ramat Rahel di cui abbiamo parlato nel precedente articolo del blog). Sappiamo che all’epoca non veniva utilizzato come frutto da pasto ma come medicinale anestetico e come repellente per gli insetti e per lenire le punture di questi. Veniva dunque prelevato l’olio essenziale presente nelle varie tasche lisigene della buccia.  Nel XVII/XVIII secolo veniva utilizzato per produrre canditi e sciroppi oltre che profumi.
Il cedro è un agrume piuttosto delicato e soffre i climi rigidi dunque va portato al riparo dalle gelate ad inizio novembre.
Se lo si porta ad incrociare con l’agrume chiamato pummelo si produce l’ibrido più conosciuto al mondo: il limone.

Citrus medica

Citrus medica

Visto che l’abbiamo citato parliamo subito del pummelo, Citrus grandis.
Si diffuse in Europa nel XI secolo d.C. portato dalla Cina meridionale. Questa pianta presenta frutti molto grandi che possono arrivare fino al peso di 10 Kg l’uno; per questo la pianta porta come epiteto “grandis”.
Si tratta di un Citrus primogenio, ovvero non ibrido, insieme al cedro e al mandarino.
Se lo si ibrida, probabilmente con l’arancio dolce, si produce il pompelmo che possiede una buccia molto più spessa e con più albedo rispetto ai due genitori.

Citrus grandis

Citrus grandis

Concludiamo con l’ultimo dei 3 capostipiti degli agrumi, il Mandarino. È ancora molto discusso quale sia la specie genitore da cui sono scaturiti tutti i vari ibridi ma non vogliamo spingerci in questo miasma e ci limitiamo a descrivere la specie custodita nella villa, il Citrus deliciosa detta anche Citrus nobilis.
Iniziamo con il descrivere l’etimologia della parola colloquiale mandarino. Deriva da mandar, appellativo dato agli alti funzionari dell’impero cinese in quanto la loro toga era tessuta con cangianti sete di color arancione.
La sua storia è recente in Europa, infatti fu l’ultimo agrume a giungere nel Vecchio Continente. La Compagnia delle Indie Orientali importarono questo albero nelle colonie britanniche dalla Cina Meridionale solo nel XIX secolo.
Inizialmente fu coltivato a Malta (per questo viene chiamato dagli inglesi Maltese orange) e poi portato in Sicilia. Il suo impiego è prettamente alimentare, infatti lo si utilizza per la produzione di canditi e marmellate.
Venne inoltre scelto per produrre numerosi ibridi tra cui il Mandarancio, che deriva dall’unione di mandarino e l’arancio dolce o amaro, e il Mapo, che deriva dall’incrocio di mandarino e pompelmo.

Citrus deliciosa

Citrus deliciosa

Continuiamo col descrivere uno degli ibridi più utilizzati oggigiorno ovvero il limone, Citrus limon.
Quest’ albero è originario dell’Indocina dove il clima è caldo e umido. Il suo nome deriva dal persiano limu.
Nel XI secolo d.C. venne portato e acclimatato dagli arabi in Sicilia dove tutt’ora è coltivato. Si tratta dell’agrume con l’acidità più alta tra tutti i Citrus e quello con forma più ovoidale.

Citrus limon

Citrus limon

Altro agrume molto coltivato in Sicilia è l’arancio. Ve ne sono due specie differenti, una dolce (detto anche melarancio o portogallo) e una amara (chiamato anche melangolo).
Il Citrus aurantium  è l’arancio amaro. È un agrume proveniente dalla Cina Meridionale e portato in area mediterranea dagli arabi nel X secolo d.C. Si tratta di una pianta resistente al freddo e per questo veniva tenuta in “serra fredda” ovvero in una stanza di solo riparo climatico.
Era utilizzato solamente per produrre una bevanda rinvigorente, dovuto all’alto contenuto vitaminico. Al giorno d’oggi viene coltivato per i suoi fiori e i suoi oli essenziali dall’industria profumiera, mentre la polpa e l’esocarpo per la produzione di marmellate e canditi.

Citrus aurantium

Citrus aurantium

Il Citrus sinesis è la varietà dalla polpa dolce che ha origine in Cina. Giunse in Europa attraverso l’India nel XIV secolo tramite le rotte commerciali coloniali spagnole e portoghesi. Deriva dalla lingua persiana ( nāranğ tradotta in “cibo degli elefanti”). Può raggiungere i 12 metri di altezza ed è il citrus più coltivato al mondo.

Citrus sinensis

Citrus sinesis

Vi sono altri due agrumi molto vicini all’arancio amaro questi sono il Bergamotto e il Chinotto.
Il primo dei due, il Citrus aurantium subsp. bergamia, è una mutazione dell’arancio amaro ed è originario del sud della Cina, probabilmente importato a Reggio Calabria all’inizio del XVI secolo. Il suo utilizzo venne diffuso solo nel XVIII secolo per uso alimentare e cosmetico come acqua di colonia.
Il suo nome deriva probabilmente dalla parola ottomana “berg-armundi” che tradotta diventa “pero del padrone” probabilmente per la sua similitudine con  il Pyrus communis, la pera bergamotta.
Famoso dunque per il suo aroma e meno per il suo sapore in quanto amaro; sono necessari 100 kg di frutti per estrarre 1 litro di olio essenziale.
La pianta può arrivare ai 3 metri di altezza e produce piccoli fiori bianchi che daranno origine a frutti giallo-verdi.

Citrus aurantisum subsp. bergamia

Citrus aurantisum subsp. bergamia

La seconda pianta citata è il Citrus autantium var. myrtifolia. L’epiteto myrtilifolia deriva dal fatto che le sue piccole foglie ricordano quelle del mirto. I frutti sono piccoli e rotondi che possono rimanere fino a 2 anni sulla pianta senza che avvenga abscissione.
La sua presenza nelle ville italiane è nota sin dal XVI secolo, ricercata per la sua bellezza e il suo habitus.
Questa pianta ha trovato habitat ottimale in Liguria dove viene coltivato tutt’ora per creare l’omonima bevanda. Viene anche utilizzata per creare profumi, canditi o piccoli bonsai.

Citrus autantium var. myrtifolia

Citrus autantium var. myrtifolia

Come ultimo esempio trovato nella mostra, vi è il Ponciro, Pocirus trifoliata monstruosa.
È stata posta per ultima nella lista perché per molti studiosi non rientra nel genere Citrus ma nel Poncirus in quanto si tratta dell’unico agrume a foglie decidue.
Questo arbusto  possiede delle robuste spine appuntite, foglie trifogliate e piccoli frutti ed è originario dalla Cina settentrionale.
Non ha un ruolo nella cucina o nella profumeria come possono avere gli altri agrumi, ma viene utilizzato solamente come portainnesto o come pianta da delimitazione.

Pocirus trifoliata monstruosa

Pocirus trifoliata monstruosa

Per rendere più chiaro l’intricato sistema degli incroci di questi agrumi vi proponiamo un nostro schema chiarificatore.

Riassunto degli incroci

Riassunto degli incroci

Queste sono le 9 piante descritte ma in realtà vi sono innumerevoli ibridi e varietà che testimoniano quanto ampio sia questo genere e come l’uomo si sia ingegnato nei secoli per trovare nuovi aromi. Questa mostra fa comprendere molto bene che la Natura è molto più complessa e differenziata rispetto ai nostri rigidi schemi di classificazione che possono essere un ottimo strumento per studiare le piante, ma che sicuramente non riescono ad incentrare a pieno ogni singola particolarità.
Vi lasciamo a fantasticare sui viaggi che queste piante hanno vissuto e sui loro profumi che hanno deliziato numerose generazioni di uomini e di popolazioni fortemente diverse mentre noi vi salutiamo e vi diamo appuntamento al prossimo articolo.

orangerie

Veduta cortile Orangerie

Bibliografia:

  • Informazioni tratte dalla mostra “gli agrumi di villa Pisani”
  • immagini tratte da wikipedia.org
  • Informazioni tassonomiche tratte da http://plants.usda.gov

Il giardino perduto del Ramat Rahel

Oggi, noi di Chronoxylon vi parleremo di un caso di studio di archeobotanica aggiungendo anche qualcosa di nostro per rendervelo più chiaro.

Foto aerea del sito di Ramat Rahel (http://www.doaks.org/research/garden-landscape/project-grant-reports/images/garden_archaeology_fig1)

Foto aerea del sito di Ramat Rahel

Sul promontorio di Ramat Rahel a 4,5 Km sud di Gerusalemme si ergeva una villa reale. L’edificio è composto da due spazi erbosi, quattro aree abitative ed una torre, il tutto circondato da un giardino artificiale. Sono state ritrovate anche tre vasche per rendere facilmente disponibile dell’acqua e tre tunnel che fungono da falda acquifera.
Il giardino aveva una estensione di almeno 0,5 acri. Molta terra è stata trasportata dalle zone circostanti per ricreare uno spiazzo pianeggiante più esteso possibile.
Questo sito venne dunque scelto da studiosi archeo-botanici per analizzare le piante presenti durante l’epoca classica nell’area Palestinese e per l’enorme giardino presente in questo complesso.

pianta evoluzione villa

Planimetria e fasi del sito

Come si può vedere dalla pianta sono state individuate tre fasi:

  • fase I: fine dell’VIII secolo a.C.
  • fase II: ultimo terzo del VII secolo a.C. e prevede anche la realizzazione del giardino
  • fase III: V-IV secolo a.C.

Per comprendere al meglio le fasi e per avere un idea più precisa delle origini delle piante del giardino è importante inquadrare storicamente il palazzo che fu costruito durante il regno di Giuda e subì diverse dominazioni. Dobbiamo quindi analizzare il momento di formazione del regno di Israele e ancor prima l’arrivo delle tribù israelite in Palestina. Esse si attestarono in questa zona alla fine del XIII secolo a.C. Dopo la crisi del 1200 a.C. che colpì le popolazioni di tutto il Levante, queste tribù diedero inizio ad un processo di sedentarizzazione. In questo preciso momento vennero inglobati anche elementi esterni, tra questi delle tribù beduine del deserto. Questo elemento è essenziale, in quanto vennero apportati nuovi caratteri culturali che divennero importanti per la successiva autoidentificazione d’Israele, come il culto di Yahweh che divenne l’unico dio riconosciuto tra le tribù del deserto. Intorno all’anno 1000 a.C. venne a formarsi quello che può essere identificato come il primo regno israelita sotto la figura del re Saul.

Nella prima metà del X secolo a.C. sorse un nuovo regno israelita, il regno di Giuda, guidato da Davide e con capitale ad Hebron. Davide governava la tribù di Giuda e controllava un area che andava dal sud di Gerusalemme fino al deserto del Negev. Nel 1008 a.C. avvenne uno scontro tra Isbaal, figlio di Saul e re di Israele, e Davide, sovrano di Giuda, che si concluse con l’assassinio da parte di alcuni traditori di Isbaal e dell’unificazione dei due regni sotto la guida di Davide. Egli spostò la capitale a Gerusalemme e promosse una serie di misure che permisero una più articolata strutturazione del regno. Dopo la morte di Davide, avvenuta nel 970 a.C., sale sul trono il figlio Salomone. Alla morte di Salomone iniziarono degli sconti interni per la successione che si conclusero nel 922 a.C. con la formazione di due regni: il Regno di Israele a nord con Geroboamo I e il Regno di Giuda a sud con Roboamo che continuerà la dinastia davidica. Dopo questo episodio la Palestina si trovò configurata in una forma quasi definitiva come un gruppo ridotto composto da piccoli regni.

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Regni dell’area Siro-Palestinese. (www.wikipedia.org)

La dinastia davidica sul regno di Giuda si estinse con l’uccisione di Ochozia nell’841 a.C. e con la strage di Atalia sui suoi discendenti. L’interregno di Atalia finì con l’usurpazione del sacerdote Yoyada a favore del bambino Yoas. Per un secolo, dall’835 al 736 a.C., la dinastia di Yoas regnò in subordine al più potente regno del Nord. Nel 733 a.C. Achaz, re di Giuda, assediato dai re d’Israele e Damasco, invocò l’aiuto del re assiro Tiglatpileser III, che ne approfittò per invadere Israele e trasformò i suoi territori settentrionali in una provincia assira. Nel 701 a.C. il re assiro Sennacherib assediò a sua volta Gerusalemme. Il sovrano di Giuda Ezechia perse parte del regno e diventò tributario assiro. Esauritasi la spinta assira a metà del VII secolo a.C., il regno di Giuda godette di un periodo di floridezza con re Giosia. Durante il suo regno ci fu un intervento decisivo in Medio Oriente e nell’area Siro-Palestinese da parte del faraone Necho II. Il sovrano egizio occupò la Palestina sconfiggendo nel 609 a.C. Giosia nella battaglia di Meggido dove lo stesso sovrano perse la vita. Necho II dopo la spedizione nel Vicino Oriente nominò Eliakim, figlio di Giosia, come nuovo sovrano. Egli governò come vassallo degli egiziani, al quale pagò un pesante tributo. Quando però gli egiziani furono sconfitti dai babilonesi di Nabucodonosor II nel 605 a.C., il re di Giuda cambiò alleanza e iniziò a pagare il tributo ai babilonesi. Dopo tre anni cambiò nuovamente alleanza, ma nel 599 a.C. Nabucodonosor II invase la Giudea e pose d’assedio Gerusalemme e nominò sovrano Sedecia. Il nuovo re dopo dieci anni di regno si ribellò ai Babilonesi, questo evento spinse Nabucodonosor II ad attaccare Gerusalemme nel 587 a.C., la espugnò e distrusse il Tempio ponendo fine al regno di Giuda. Questo territorio rimase sotto il domino Babilonese fino al 539 a.C. quando Ciro II, fondatore della dinastia achemenide, sottometterà l’ultimo sovrano babilonese. L’evento portò ad un cambio dinastico ma non ad un ridimensionamento territoriale. Il dominio persiano durò fino al 331 a.C. quando il Re dei Re Dario III verrà sconfitto da Alessandro Magno che conquisterà tutti i territori del Vicino Oriente, dell’area Sirio-palestinese e dell’Egitto.

Cronologia Regno di Giudafine

Cronologia del Regno di Giuda in relazione alle dominazioni e alle fasi della villa

Conoscendo meglio il contesto ora possiamo tornare a cercare di ricostruire il nostro antico giardino grazie all’uso di mezzi scientifici.
Il polline è uno strumento che può essere utilizzato negli studi di archeobotanica, aiutandoci per la datazione ma anche per scoprire quali piante vi fossero coltivate in quell’area ed è questo che andremo ad approfondire. Prima di procedere con lo studio bisogna però fare una considerazione climatica e botanica; Il Ramat Rahel ha un clima Mediterraneo piuttosto caldo. I suoi inverni sono caratterizzati da forti piogge che vanno a scemare pian piano in primavera. L’estate è calda e arida mentre l’autunno comincia a portare sporadiche piogge che arrivano all’apice di frequenza con l’avvicinarsi dell’inverno. Attraverso questi dati possiamo immaginare la vegetazione, la quale sarà abbondante in inverno ma scemerà in estate con il caldo.
Ma quali sono le piante presenti oggi nell’areale del Ramat Rahel? Questo luogo si trova al limitare della fascia Mediterranea a ovest e quella irano-turanica ad est. Dunque sul territorio troviamo specie botaniche di ambo i territori. Per citare alcuni esempi abbiamo la Quercus calliprinos, comunemente detta quercia spinosa, la Olea europaea, ovvero l’olivo, il Pinus halepensis, detto pino d’Aleppo e ancora la Ceratonia siliqua, il carrubo. Nella fascia irano-turanica possiamo trovare piante come la Artemisia herba-alba, ovvero l’artemisia bianca, Tamarix ramosissima, detta tamerice. Troviamo anche altre erbacee, solitamente Graminaceae e Astragali, tipiche delle steppe.
Questa considerazione iniziale è sostanziale per analizzare i dati finali che verranno ricavati dall’équipe di archeologi e botanici.

artemisia herba alba

artemisia herba alba

Ora possiamo andare ad analizzare dove sono stati presi i campioni di terreno per gli studi successivi. Innanzi tutto si sono scelti luoghi dove lo smottamento del terreno era mancato per più tempo possibile. In aiuto è venuto il fatto che non vi sono risorse idriche permanenti vicino alla villa che possono o avrebbero potuto dilavare i pollini dal terreno. Il punto di prelievo ottimale è stato identificato in una delle vasche e, tramite delle particolari pellicole adesive chiamate “plaster”, gli scienziati prelevarono parte del terreno da cui poi isolarono i pollini.
Questi, dopo attenta e paziente visione al microscopio ottico, vennero confrontati con la collezione pollinica del Museo di storia naturale di Israele a Tel Aviv. In questo modo si è ricostruita, almeno in parte, la biodiversità presente nel giardino.

Come ci si aspetta, si son trovate grandi tracce di polline di pino, querce, olivi e diverse piante da orto come cavolo e cereali. Ne andiamo a descrivere alcune per ricreare l’idea di vegetazione “comune” dell’epoca. Con il termine “comune” vogliamo si definire la vegetazione presente nella zona, ma anche dare un valore simbolico a queste piante; essendo comuni il loro valore di prestigio è basso e dunque vengono usate per facilità di coltura ma non sono le vere protagoniste del regale giardino.

Vediamo quali sono queste piante:

Troviamo subito il Salix, il salice. Non si è potuto riscontrare precisamente di quale specie si tratti a causa della similarità e allo stato dei pollini, ma sappiamo che all’epoca era di moda il salice piangente, che sicuramente ha un impatto visivo molto peculiare. Il salice ha anche un uso rituale per la religione ebraica, in particolare modo viene utilizzato per la festa dei tabernacoli (insieme al mirto, alla palma e al cedro). Questo evento religioso prende anche il nome di Sukkot ed ha la funzione di ricordare il biblico pellegrinaggio del popolo ebraico verso la Terra Promessa.

Salix_alba_'Tristis wikipedia

Salix alba

Proseguiamo con Olea europaea, l’olivo che troviamo nell’area mediterranea. Si tratta di un albero sempreverde, uno dei primi ad essere stato addomesticato dall’uomo in quanto i suoi frutti rappresentavano una grande fonte di guadagno. La simbologia a lui riferita è ampia, incarna infatti i principi di pace, gloria, fertilità, potenza, martirio e purezza.

Olea Europaea

Olea Europaea

Il Myrtus communis è una pianta arbustiva la cui specie communis è l’unica Myrtaceae che cresce in Israele. Il suo uso si limitava alla bellezza estetica dovuta al verde delle sue foglie e per il suo aroma che si disperdeva facilmente nell’aria. È una delle quattro piante utilizzate per la festa del Tabernacolo

Myrtus communis

Myrtus communis

Chiudiamo velocemente la lista con due piante acquatiche, la Nymphaea nouchali e Nympheae alba. Non hanno un particolare utilizzo se non quello visivo. Questo ci fa capire che le vasche del palazzo non erano utilizzate solo come cisterna d’acqua ma anche come elemento per impreziosire il proprio giardino ornamentale.

Nympheae alba e Nymphaea nouchali

Nympheae alba e Nymphaea nouchali

Come accennato prima, i pollini davvero interessanti sono quelli provenienti da piante non autoctone e dunque importate apposta in quel luogo per dimostrare la potenza del signore che abitava la villa. Queste sono quelle per cui la ricerca è stata fatta! E il loro valore non è soltanto legato alla villa ma anche per capire quali potevano essere le rotte commerciali e i contatti dell’epoca!

Andiamole a descrivere brevemente:
Iniziamo con la Citrus medica, il cedro. Questo è stato un ritrovamento molto importante in quanto rappresenta la più antica testimonianza di coltivazione di cedro nel Vicino Oriente (V-IV secolo a.C.). Oltretutto questa specie è l’unico agrume che all’epoca cresceva in questa zone e nel bacino del Mediterraneo, in quanto gli altri alberi di questa tipologia arrivarono in loco solo successivamente (VII secolo d.C.).
I suoi usi erano probabilmente legati all’aroma piuttosto forte che veniva sfruttato per allontanare le zanzare. Non vi sono evidenze per dire che veniva utilizzato come alimento all’epoca.

Citrus medica

Citrus medica

Altra pianta ritrovata è il Cedrus libani, il cedro del Libano. Si tratta di una conifera di modeste dimensioni nativa del Libano, ma ritrovata anche nel sud della Turchia e a nord della Siria.
A livello simbolico è una pianta che inneggia alla forza, alla dignità e alla grandeur e per questo motivo veniva anche chiamato l’albero del principe. Il suo uso era principalmente nell’edilizia; era usato come materiale di alto prestigio e dunque per edificare o ornare le case dei più ricchi. Ricordiamo che esso veniva importato anche in Egitto già dal Medio Regno e con esso venivano realizzati i modelli in legno presenti nelle tombe e gli stessi sarcofagi.

Cedrus libani

Cedrus libani

Continuiamo con la Juglans regia, il noce bianco. È una pianta nativa del ovest dell’Asia, già coltivata nell’areale nell’Età del Ferro. Era ed è una pianta rinomata per il suo legno robusto e per i suoi frutti ben conservabili.

Juglans regia

Juglans regia

Numerosi pollini derivano da piante del genere Betula, che contiene più di 30 taxa; questa imprecisione è dovuta alla similarità dei vari pollini tra di loro. Basandoci su rilevazioni moderne, la betulla più vicina riscontrata al sito è in Anatolia, a 600 km di distanza.

Questa lista di nomi è stata fatta per dare un’idea di cosa potesse essere un giardino del IV secolo a.C. A nostro avviso doveva essere qualcosa di davvero impressionante in quanto il cedro Libanese e gli olivi davano un senso di forza dal momento che erano gli unici alberi ad alto fusto della zona. A impreziosire ulteriormente il giardino troviamo piccole gemme preziose come sono il mirto e il cedro che possiedono aromi forti che richiamano l’attenzione e ancora le ninfee, coltivate in una vasca ricolma d’acqua in un luogo in cui ve ne è la scarsità. Insomma, una esaltazione di potere e ricchezza seconda solo alla possibile bellezza del palazzo e delle pietanze che venivano cucinate al suo interno.

Bibliografia:

  • AA. VV. La Grande Storia, National Geographic, Regni e imperi del Vicino Oriente (2015) Vol. 5  edizioni RBA
  • DAFNA Langgut, Yuval Gadot, Naomi Porat & Oded Lipschits (2013), Fossil pollen reveals the secrets of the Royal Persian Garden at Ramat Rahel, Jerusalem, Palynology 37:1, 115-129.
  • http://www.treccani.it

Il grano, Storia di una pianta rivoluzionaria

tabellone

Oggi parleremo di un’ altra mostra che noi di Chronoxylon abbiamo visitato. Se ci seguite sulla nostra Pagina Facebook l’avrete sicuramente vista passare tra le varie notizie che ogni giorno carichiamo; si tratta di Il Grano. Storia di una pianta rivoluzionaria.

A pochi giorni dalla chiusura siamo riusciti a visitarla e nonostante sia una mostra piccolina e poco pubblicizzata è stata un’esperienza veramente interessante. Il progetto espositivo rientra all’interno dell’evento Expo 2015, dedicato appunto al tema dell’alimentazione e delle sfide connesse ad esso. La mostra è stata allestita al primo piano del nuovo Museo Etnografico del Friuli ed è stato realizzato dal Museo Friulano di Storia Naturale (che in questo momento è chiuso al pubblico) con la collaborazione del Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali dell’Università di Udine, dall’ERSA, Agenzia regionale per lo sviluppo rurale e dall’Orto Botanico della Provincia di Udine. L’area espositiva si articola all’interno di questo salone con un soffitto riccamente decorato e continua in una piccola saletta multimediale.

La mostra presenta 15 pannelli illustrati che insieme a reperti archeologici, museali e l’esposizione di granaglie si articolano in tre grandi gruppi tematici: la prima descrive i cereali e la storia dell’Agricoltura in Friuli dall’età Neolitica al Medioevo; la seconda tratta dell’arrivo in Europa di nuove specie animali collegati all’agricoltura; la terza parla dei cambiamenti paesaggistici che si sono verificati nella storia recente e delle sfide per il futuro.

Il percorso espositivo inizia con l’inquadramento dei cereali, termine merceologico e non botanico che indica alcune piante erbacee; esse appartengono alla famiglia delle graminaceae (riso, mais, frumento, avena, orzo, segale e farro), ma sono presenti anche altre specie botaniche e tra queste troviamo come piante il grano saraceno, l’amaranto e la quinoa. I prodotti ricavabili da questi sono molteplici: farine, pasta, polenta, pane, corn flakes (chicchi di mais cotti al vapore e schiacciati), pop corn (chicchi di mais tostati), bevande alcoliche quali birra, whisky, chicha, sakè e molti altri.
Oltre a scopi alimentari esse possono venire utilizzate come materie plastiche biodegradabili e recentemente anche come agrocarburanti. Sotto a questo pannello troviamo dei cilindri trasparenti riempiti da alcuni di questi cereali, da notare la colonna del mais dove sono presenti chicchi di vari specie e dai colori diversi: mais giallo, rosso e nero.

frumenti

La spiegazione continua e descrive l’addomesticazione del frumento. In natura esistono varie specie di questa pianta ed esse vengono suddivise in base alle coppie cromosomiche che posseggono, la ploidia. Conosciamo due frumenti diploidi (1 coppia per ciascun cromosoma) selvatici: il Triticum boeoticum e il Triticum urartu. Dal primo deriva il Triticum monococcum, comunemente chiamato farro piccolo. Esso fu tra i primi ad essere domesticati nella Mezzaluna Fertile; oggi giorno è una coltura abbandonata, utilizzata solo in agricoltura biologica. Il Triticum urartu non venne mai domesticato, ma è importante in quanto è stato il genoma di base di tutti i frumenti, tetraploidi (4 coppie) ed esaploidi (6 coppie). Tra i tetraploidi selvatici troviamo il Triticum dicoccoides e il Triticum araraticum. Il primo è ancora presente nella Mezzaluna Fertile ed è il progenitore del Triticum dicoccum, ossia il farro medio. Questo tipo di frumento venne utilizzato largamente nell’Antico Egitto e nelle civiltà classiche per fare il pane e viene tuttora coltivato in sistemi agricoli tradizionali. Da questa piante si origina il grano duro di pasta, il Triticum durum.
Un esaploide è il grano tenero, Triticum aestivum, il tipo di frumento più diffuso al mondo. Si ipotizza che esso derivi dall’incrocio, avvenuto circa nel 6000 a.C. nell’areale del Mar Caspio tra Triticum dicoccum e l’Aegilops tauschii, graminacea spontanea. Questa struttura evolutiva così complessa e dettagliata viene resa visivamente attraverso una rappresentazione schematica ed efficace con degli esemplari di queste diverse specie.

spighe

Nonostante l’uomo avesse iniziato ad utilizzare i semi, le radici e i frutti per scopi alimentari già in un epoca antichissima, attorno al 13000-12000 a.C. le popolazioni della Mezzaluna Fertile possedevano una dieta molto variegata, che comprendeva oltre cinquanta specie vegetali successivamente trasformate e domesticate da alcune popolazioni della Turchia e del Vicino Oriente.  Nell’8000 a.C. l’agricoltura del Vicino Oriente si era specializzata nella cultura di cereali-frumenti, tra questi il farricello, il farro, il grano duro e tenero; orzo-leguminose come il pisello e la lenticchia; il lino, utilizzato sia a scopo alimentare che per la fibra da tessere. In questo periodo abbiamo, a causa di fattori ancora non del tutto chiari, un aumento della popolazione, mutamenti climatici, perdita di fertilità del territorio, che portano a delle ondate migratorie verso l’Occidente.
Queste popolazioni raggiunsero il Friuli nel 6000 a.C. Il terreno paludoso e le foreste difficilmente accessibili rendono il territorio difficile da coltivare. L’area meridionale della regione presentava degli insediamenti posti lungo dossi fluviali, come a Piancada, mentre, nell’area centrale, questi gruppi umani scelsero i terreni più fertili; tra i vari siti troviamo Sammardenchia, Valler, Fagnigola e Bannia. Il Friuli presenterà un’ evoluzione della coltivazione cerealicola. Nel Neolitico compare l’orzo, i frumenti vestiti e alcuni nudi (i due differenziano i cereali per la facilità con cui il glume si stacca dal chicco). Queste colture vengono seminate insieme in aree tolte alla foresta circostante. Alla fine del Neolitico comparirà anche lo spelta, ovvero il farro grande.
Nell’età del Bronzo, attorno al 2500-1000 a.C. giungeranno due nuovi cereali: il miglio e il panìco, mentre tra l’età del Ferro e la romanizzazione sarà la volta della segale. I romani mantennero tutte le coltivazioni locali, preferendo inizialmente il farro e in seguito il grano duro e quello tenero.
Nel tardo impero e nel Medioevo compare anche il sorgo e il riso, quest’ultimo utilizzato solamente per scopi medicamentosi.

mappa domesticazione

Il percorso continua lungo uno dei lati corti del salone dove troviamo esposti da destra a sinistra una vetrina con dei reperti archeologici provenienti dal sito neolitico di Sammardenchia e tra questi è di notevole interesse una macina composta da una pietra rettangolare ed una sferica che serviva per ridurre in polvere i cereali o le fibre vegetali. Nella stessa vetrina troviamo anche una ricostruzione di un falcetto con gli elementi in pietra originali ed esempi di accette, scalpelli e un ascia, tutti in pietra. Continuando vediamo due ricostruzioni di colture neolitiche di Triticum monococcum e di Triticum dicoccum.

attrezzi giusto

Proseguendo oltre  troviamo invece una vetrina con tre tavole botaniche dove sono visibili un fiordaliso, un Adonis flammea e un’Agrostemma githago. Quest’ultima teca viene spiegata nel pannello successivo dove si parla di archeofite. Infatti dal Vicino Oriente insieme ai cereali vengono involontariamente portate anche varie specie infestanti di queste colture che vengono definite appunto archeofite, proprio per indicare che giunsero in Europa e in Italia in età antica. Molte di essere si sono perfettamente adattate; gran parte di queste piante legate alle colture sono specie annuali, con cicli vitali simili ai cereali e quindi i loro frutti raggiungono la maturazione prima della mietitura. Esse sono molto sensibili ai pesticidi chimici e quindi con l’arrivo dell’agricoltura industriale parte di esse sono estinte o drasticamente ridotte. Fra queste le più note sono il papavero, il fiordaliso e la viola dei campi.

erbario

Oltre alle specie vegetali giunsero in Europa anche varie specie animali spesso portate involontariamente tra le merci. Sono giunti così molti vertebrati e invertebrati dai territori asiatici e dal Medio Oriente come il ratto nero e il topolino delle case. Il processo del disboscamento per le colture, avvenuto nel 5000 a.C. portò ad una vera e propria rivoluzione biologica e permise il facile spostamento di altri animali grazie alle ampie aree ricavate per l’agricoltura, tra queste c’è la faina.

Di notevole interesse è l’arrivo del ratto grigio nel XVII secolo d.C. che relegò il ratto nero  ai granai e ai sottotetti e permise l’interruzione della peste bubbonica, causata dalla Yersinia pestis, un batterio presente nelle pulci che infestano questo particolare roditore.

Come conseguenza della diffusione di questi roditori avvenne già nel Neolitico l’addomesticazione di alcuni animali per contrastare la loro diffusione, tra questi c’è sicuramente il gatto d’Egitto, addomesticato nell’Antico Egitto per difendere le granaglie. Grazie ai Fenici prima, ai Romani e poi ai Carolingi esso si diffuse in tutta Europa e in epoche successive in tutto il mondo. Il Gatto di casa, Felis silvestris lybica, è il diretto discendente di questo felino e tuttora mantiene la sua funzione di custode dei cereali.

animali

Altri fattori di rischio per il raccolto immagazzinato, oltre ai roditori, sono gli insetti. Essi riuscirono ad adattarsi e a muoversi rapidamente tanto da infestare ogni tipo di cereale. Troviamo quindi coleotteri come il cappuccino dei cereali ( tarlo del legno successivamente adattato a vivere grazie a vari cariossidi) , il tribolo della farina (coleottero di origine indiana), l’anobio del pane (invertebrato che attacca cereali, carta, legno e sughero). Continuando con l’elenco troviamo il tenebrione mugnaio, il punteruolo, che si nutre di frumento e riso e il tarlo del tabacco. Oltre ai coleotteri troviamo anche dei lepidotteri che si nutrono di cereali, come le tignole del grano, della farina e diversi tipi di acari.

A conclusione di questa seconda area tematica troviamo al centro della sala una vetrina con nove ciotole all’interno delle quali sono disposte diverse tipologie di farine:

  • La farina gialla di mais: grossolana ed utilizzata per la polenta, la miaccia piemontese e per le tortillas
  • La farina bianca di mais
  • La farina di cinquantino: è un tipo di mais che matura in cinquanta giorni
  • La farina di segale
  • Semola di mais: contiene anche una pare della crusca e per questo è ricca di fibre
  • La farina integrale di grano tenero
  • La farina 00 di grano tenero: utilizzata per la produzione del pane e delle pizze
  • Semola di grano duro: utilizzata per la pasta fatta in casa
  • Rimacinata di grano duro

All’interno dello stesso espositore si può notare anche un modello di cariosside sezionato. Grazie ad esso sono chiaramente evidenti le tre parti che lo formano: il germe, cioè la parte che germogliando genera la nuova pianta;  esso contiene le vitamine B ed E, minerali e grassi. Lo strato esterno, formato da pericarpo e tegumento sono composti principalmente da fibra. L’endosperma, ovvero la parte contenente il nutrimento che il germe utilizza per svilupparsi, formato da amido, proteine e vitamina B.

farine

L’ultima parte della mostra è dedicata allo sviluppo agrario recente del Friuli, delle problematiche sorte negli ultimi decenni e spunti di riflessione sul futuro. L’intervento umano sull’ambiente ha portato infatti ad alterare le sue caratteristiche, sia fisiche che biologiche portando ad una riduzione degli habitat e delle specie. Cambiando l’uso del suolo, fenomeno che è iniziato con la nascita dell’agricoltura, si verifica un nuovo scenario dove avviene un’integrazione tra habitat naturali e quelli semi-naturali generando un nuovo e complesso equilibrio. Questo avviene grazie al basso impatto dell’uomo sull’ambiente e alla sopravvivenza di aree mantenute vergini come possono essere i fiumi, le zone umide e quelle boscose. Ciò ha permesso un incremento della biodiversità, presente fino mezzo secolo fa, quanto la Rivoluzione verde ha ridefinito il rapporto tra uomo e natura. Infatti le grandi bonifiche portarono alla scomparsa di aree umide, ricche di specie animali e vegetali. Le concimazioni chimiche sostituirono quelle organiche e vennero selezionate delle piante prettamente nitrofile (che prediligono un alto tasso di azoto nel terreno). L’utilizzo di insetticidi, erbicidi e fitofarmaci unita alla monocultura portarono a vantaggi immediati ma anche ad una serie di problemi a lungo termine. Tutti questi fattori segnarono una perdita di biodiversità specifica. Essenziale è l’opera di raccolta, conservazione e caratterizzazione delle antiche culture e la valorizzazione dell’agro-biodiversità. Nel 2002 in Friuli è stata istituita la Banca del Germoplasma gestita dall’Università di Udine, essa conserva oltre 330 campioni di piante erbacee.

Recentemente si sta dando importanza al problema della salvaguardia e della tutela della biodiversità ed esso viene analizzato anche dal punto di vista della sopravvivenza dello stesso genere umano. È essenziale quindi consolidare le aree naturali esistenti, quelle agricole tradizionali e ripristinare le aree compromesse. Noi di Chronoxylon abbracciamo questa riflessione che conclude il percorso di visita della mostra e attraverso questo progetto, appena iniziato, ci piacerebbe dare un piccolo contributo in tal senso. La riscoperta di tipi di colture antiche, oltre ad essere affascinante ed interessante, rappresenta un bagaglio genetico, biologico, storico ed archeologico eccezionale. Attingiamo dal nostro passato e in generale da quello della Terra per costruire un nuovo futuro.

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“Sulla rotta delle spezie”

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Come prima mostra non potevamo non partire dalla nostra città, Torino. In questi giorni si sta concludendo l’esposizione temporanea realizzata dal MAO, il Museo d’ Arte Orientale di Torino, in collaborazione con il National Geographic e la sponsorizzazione di Cannamela. Questa piccola esposizione fotografica, pur snodandosi in sole 11 sale, compie un enorme viaggio nel tempo e nello spazio, infatti vengono narrate le rotte commerciali di spezie che per secoli, fin dall’età romana, giunsero in Occidente dalle regioni più remote dell’Asia. Il concetto stesso di viaggio viene espresso fin dall’inizio con i primi due ambienti che rievocano questi luoghi a noi lontani tramite delle splendide foto realizzate dai fotografi professionisti  che han saputo immortalare il fascino esotico e misterioso di queste realtà a noi molto lontane.

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Il viaggio tra i punti di origine delle spezie parte dall’Indonesia, passando da Wokam a Bali per poi sorvolare il vulcano Galama delle isole Ternate e ancora Sumatra e Giava orientale. Si prosegue poi con Koichi in India, Whampoa in Cina e l’isola Socontra nello Yemen. Infine il racconto delle rotte approda in Madagascar e Sud Africa per poi arrivare in Europa.

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Dopo le foto paesaggistiche, per introdurci ai luoghi di origine delle varie spezie, troviamo il “suq”. Questo allestimento vuole creare un’esperienza immersiva in un mondo fatto di colori e di odori; troviamo quindi giare ricolme di cannella (Cinnammomun zeylanicum), coriandolo (Coriandrum sativum) , curcuma (Curcuma longa) fino agli odori a noi più conosciuti come il peperoncino (Capsicium), finocchio (Foeniculum volgaris) e origano (Origanum). Appese alle pareti troviamo scene di mercato di tutti i giorni in vari paesi del mondo tra i quali notiamo il curioso mercato galleggiante di Laos.

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Usciti dal mercato arabo ci si trova in una sala-corridoio e sulle pareti si possono ammirare un tessuto e due tappeti provenienti dalla Persia tutti della fine del XIX secolo. Troviamo questa data non a caso, infatti fino a questo momento storico in Oriente i tessuti venivano colorati tramite delle tinture naturali, di derivazione vegetale o animale. Mentre le colorazioni più semplici venivano realizzate in modo domestico, quelle più complesse venivano prodotte da dei centri specializzati, in quanto senza un particolare mordente era difficile fissare la cromia ai tessuti. Uno degli elementi più preziosi che veniva utilizzato è sicuramente lo zafferano ( Crocus sativus), che grazie al carotenoide crocina, risulta essere un pigmento molto forte, il quale permetteva la realizzazione di un giallo-arancio molto intenso.
Accanto alle splendide fotografie e ai profumi delle spezie la mostra viene impreziosita anche da reperti archeologici, storici e librari come possono essere questi tappeti persiani e il bellissimo mortaio con pestello in bronzo, anch’esso proveniente dalla Persia e del quale non è ancora chiara la datazione.

peperoncinobisNelle sale seguenti ci ritroviamo tra foto riguardanti diverse spezie; La prima è il peperoncino, pianta originaria dell’India dal tipico colore rosso acceso, infatti le fotografie della sala giocano molto tra i contrasti del terreno dal tono tenue e i cumuli di peperoncino rosso vivo che si possono ammirare in India, in Cina, in Chad fino ad arrivare in Messico dove è originario il peperoncino Simojovel, famoso per la sua piccantezza.

Proseguiamo con lo zenzero, una pianta di cui viene utilizzato solo il rizoma (parte sotterranea) sia come spezia sia per creare bibite particolari tra le quali il Ginger ale. Non avendo un colore peculiare come quello del peperoncino i fotografi si focalizzano sugli usi e la sua lavorazione. Il tutto viene coronato da una frase che vuole ricordare Apicio, gastronomo romano del I secolo d.C., menzionato anche da Seneca e Plinio il Vecchio. Egli per primo parlò di spezie e del loro utilizzo nel ravvivare le pietanze e per stupire i commensali nelle bibite. Qui troviamo anche dei vasi rituali provenienti dalla Cina e solitamente esposti nella collezione permanente del MAO, uno veniva utilizzato per contenere vino e cereali (rituale jia) , il secondo carne (rituale ding)  e il terzo offerte in granaglie (rituale gui) e vengono datati rispettivamente al XIII, IX e X secolo a.C.

atlanti 2bisA spezzare la successione di sale dedicate alle spezie c’è una vetrina, posta lungo un punto di passaggio che espone tre carte geografiche, esse provengono tutte dalla Biblioteca Reale di Torino. La prima è il preziosissimo Theatrum Orbis Terrarum del 1595 di Abraham Ortelius, grande cartografo fiammingo; quest’opera viene considerata il primo atlante moderno e per realizzarlo l’autore utilizzò fonti antiche che oggi sono andate perse. Il Theatrum è il punto d’inizio della cartografia moderna ma anche l’anello di congiunzione con quella antica, esso rappresenta il concetto del viaggio nel tempo e nello spazio. Il secondo è un Atlante di cosmografia realizzato da Louis Teixeira e Joao Baptista Lavanha nel 1612. L’ultimo invece è la più antica raffigurazione di una carta nautica dell’India e delle Molucche realizzata da Nuño Garçia de Toreno del 1522.

crocusbiscammelloSi prosegue con lo zafferano, spezia ricavata dagli stimmi del pistillo del Crocus sativus. La sua preziosità deriva dal fatto che ogni fiore produce poca della ricercata polvere gialla, e dunque la quantità di stimmi necessari sono notevoli. Oltre che all’utilizzo più conosciuto per creare piatti colorati dal sapore orientale venne usata anche come medicinale per le lussazioni e, come già citato in precedenza, per la colorazione dei tessuti.
Le foto che troviamo esposte nella sala possiedono un tocco di colore intenso dato dal fiore del crocus, viola e giallo, il quale risalta dal terreno più grigio. In queste immagini possiamo vedere scene di Pampos (India), Dubai, della Bulgaria fino al Kashmir. A conclusione dello zafferano troviamo esposto un Cammello battriano con due ceste realizzato in terracotta grigia e ingobbiato. L’oggetto è stato rinvenuto nelle province dello Henan o dello Hebei in Cina ed è datato alla prima metà del VI secolo d.C. Esso rappresenta per antonomasia il mezzo più utilizzato nel passato per il trasporto di queste preziose polveri arancioni sia da mercato a mercato che lungo le vie carovaniere che collegavano l’Oriente all’Occidente.

mestolobisContinuiamo con la Noce moscata, albero originario delle isole Molucche da cui si ricavano due differenti spezie: il seme vero e proprio è la conosciutissima noce moscata; il macis invece è la parte esterna (endocarpo) che ricopre il seme. Viene usata ampiamente in cucina, ma anche in erboristeria per le sue proprietà antisettiche. Nelle fotografie non troviamo grandi colori se non in quelle raffiguranti il fiore stesso o il frutto della pianta. Troviamo un’ immagine di donne che lavorano il macis il cui pigmento predominante è il seppia. Anche in questo caso la sala viene impreziosita da reperti del MAO come i due mestoli in bronzo con manico decorato, provenienti dalla Cina settentrionale e datati alla fine del III- II secolo a.C. Nella stessa vetrina troviamo anche due vasi, uno yan per la cottura a vapore del I secolo a.C. e l’altro per il vino di cereali.

Le Ultime due sale racchiudono quattro differenti spezie, vaniglia, chiodo di garofano, sesamo e cannella.

vanigliabisLa vaniglia viene prodotta da un’orchidea dell’america centrale e fruttifica una volta all’anno. Dalla lavorazione del baccello si ottiene la vanillina, un’aldeide aromatica che conferisce il tipico aroma. Oggi giorno la vanillina viene prodotta chimicamente o tramite sistemi biologici alternativi in modo da poterne produrre quantità massive mantenendone un costo decisamente inferiore rispetto a prima della sintesi chimica. Le immagini vanno a descrivere i lavoratori di vaniglia, i quali annusano i baccelli per vedere se i funghi hanno intaccato il raccolto e successivamente li legano insieme per procedere con la vendita.

I chiodi di garofano sono boccioli di questo arbusto che cresce nelle Molucche, Antille nel Madagascar e nell’Indonesia. Conosciuta già dai romani, veniva principalmente usata come pianta medicinale per le sue proprietà antisettiche e come calmante del dolore. Gli olandesi riuscirono in età moderna ad estrarne l’olio essenziale ora utilizzato ampiamente nella cosmesi. Le poche foto riguardanti la spezia si focalizzano sul bocciolo dai colori sgargianti e da qualche panorama delle isole di provenienza.sesamobis

Il seme di sesamo èuna pianta erbacea coltivata anticamente in Egitto e nell’ Asia tropicale oltre che nel mediterraneo. I semi vengono essiccati o tostati. Le foto ci portano in Siria, Kenya e Yemen.

La mostra si conclude con la cannella, spezia derivante dalla corteccia essiccata di una pianta legnosa, il Cinnamomum zeylanicum originaria dello Sri Lanka. Ingrediente del Curry e per noi europei più conosciuta come spezia da dolce e bevande. Nelle foto predominano il marrone chiaro, colore della cannella. Alcune di queste foto riguardano anche la Osmunda cinnomoneum, una felce americana che possiede l’epiteto cinnomoneum perchè i suoi sori (sacche portatrici di spore) possiedono lo stesso colore della stecca di cannella.

Presentazioni

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Questo blog nasce dall’idea di due studenti universitari di Torino, un aspirante archeologo e un biotecnologo, i quali hanno voluto unire le loro passioni e ricerche per trattare di un argomento ancora poco conosciuto quale l’Archeobotanica. L’obiettivo è dunque quello di vagabondare nella storia alla ricerca di tutti quegli elementi aventi a che fare con le piante dell’epoca, cercando di scoprire quale importanza avessero in quel periodo in ambito medico, artistico, ed esoterico e magari narrare di miti e leggende legati al mondo vegetale. Insomma si vuole dare importanza a tutta quella sfera che ai molti rimane celata in quanto mai considerata di alto interesse o semplicemente posta in secondo piano in quanto percepita come marginale. Si vuole dunque far risplendere di luce nuova e attraverso una lente scientifica un mondo affascinante e ormai dimenticato.